
L’amore oltre la dipendenza affettiva
Cresciamo con l’idea che innamorarsi e amare siano un fatto normale, un’esperienza a cui siamo predestinati in quanto esseri umani. Dai giocattoli ai cartoni animati, dalla letteratura al cinema, passando per tv e internet, ovunque nella nostra cultura è diffuso il (pre)concetto che l’amore sia un obiettivo esistenziale spontaneo e alla portata di tutti, un sentimento “naturale” che prima o poi ci convoglia in coppie e famiglie felici e prolifiche.
Ci viene proposto come normale e come norma un modello astratto di relazione stabile e soddisfacente basato sulla reciprocità e sull’armonia, un modello che in nessun modo rispecchia la realtà delle relazioni di coppia. A dispetto dell’iconografia culturale che rappresenta l’idillio, l’innamoramento e l’amore non solo sono per lo più esperienze transitorie, ma nella gran parte dei casi sono normalmente e fisiologicamente aree di ambivalenza, di conflitto, di sofferenza e di delusione per uno o per entrambe le parti in causa.
Vale a dire che le relazioni che funzionano e che durano sono il frutto di combinazioni eccezionali tra bisogni e desideri profondi di individui capaci d’amore, e non certo la regola.
Molte persone si considerano sfortunate perché non riescono a garantirsi una relazione equilibrata e perché hanno vissuto più di una storia tormentata o diversi rifiuti amorosi e per questo arrivano a considerasi “sbagliate”. Quando poi la tensione verso l’ideale amoroso diventa ossessione e deraglia nella dipendenza affettiva, l’idea di avere qualcosa che non vada nella propria identità si concretizza nella sintomatologia e nelle sue conseguenze: la stagnazione in relazioni realmente impossibili e autodistruttive o il ritiro in una solitudine amara e rassegnata.
L’impossibile realizzazione dell’utopia dell’Amore “modello” apre il campo alla perdita della stima di sé, al pessimismo, alla vergogna e alla depressione. Spesso gli stereotipi dell’amore come esperienza universale e della coppia indivisibile e sacra sono assurti a Verità e chi non raggiunge lo standard si sente come se avesse qualcosa di rotto, di disfunzionale. E si condanna.
Donne intrappolate nei labirinti di uomini che non solo non le amano, ma non amano affatto, né loro né nessuna; uomini imprigionati nel deserto affettivo di compagne ipercontrollanti e frustranti che non li amano, ma non amano affatto, né loro né nessuno.
Persone che non si innamorano per quanto si sforzino di farlo e per quanto siano dall’altro amate esistono e esistono non come espressione di patologia in una frazione infinitesima della casistica generale, ma come variante fisiologica e relativamente frequente dell’affettività umana. La psichiatria stigmatizza con l’etichetta di “alessitimia” il deficit nella capacità di provare emozioni e di riconoscere quelle altrui, ma il disturbo alessitimico può essere visto come l’estremo clinico di un continuum che descrive la comune condizione affettiva di individui perfettamente inseriti nel tessuto sociale e capaci di mantenere un equilibrio emozionale anche senza “amare”.
Non c’è alcuna ragione per pensare che la mancanza di attitudine al sentimento d’amore, inteso nella sua accezione romantica più comune, sia il sintomo di una patologia, l’esito di un trauma o la conseguenza di una qualche deviazione dalla norma. L’innamoramento e l’amore possono essere viste come strategie di adattamento positivo nel complesso mondo della psiche, ma non sono probabilmente le uniche, né quelle valide per tutti, a meno di stabilire arbitrariamente che la piena realizzazione dell’essere umano sia subordinata alla costruzione di una coppia, al di là delle sue più profonde e autentiche inclinazioni.
Sarebbe come dire che esistono persone di serie A che si innamorano e condividono floridi rapporti di coppia e altre di serie B che non ci riescono o che, in fondo, non lo desiderano. La realtà delle emozioni umane è molto più complessa di quanto si vorrebbe e sfugge al cliché onnipresente e riduzionista della coppia: in questa realtà ci sono uomini e donne che semplicemente non si innamorano e non amano, oppure che si innamorano ma non amano, o, infine, che amano ma non si innamorano. Nessuna di queste condizioni individua di per sé una patologia, ma descrive uno stato, una possibilità tanto “normale” quanto quella considerata usualmente “sana”.
La patologia scaturisce quando una persona che propende alla coppia incontra un’altra persona che per proprie dinamiche non necessariamente disfunzionali non vuole, non può o non riesce a corrispondere il sentimento d’amore canonico e a comunicare nel registro “normale” delle relazioni amorose. Quando ciò accade, si apre lo scenario più tetro della dipendenza affettiva: la rabbia, l’incomunicabilità, l’inseguimento, il rifiuto, il compromesso, la disistima e la disperazione. E a soffrirne, a volte sino ad ammalarsene, è il soggetto “normale”, quello la cui capacità d’amare è integra e più consona alla norma socio-culturale vigente; l’altro, invece, sembra mantenere il proprio equilibrio anche senza l’amore che gli viene richiesto, che dovrebbe provare e che non sente, e si avvantaggia delle lusinghe e dei riconoscimenti che la relazione gli procura a costo zero.
Ci sono persone del tutto “normali” che non hanno bisogno d’amore, non lo cercano e, anzi, lo sfuggono e combattere contro la loro modalità di relazione vuol dire lottare contro mulini a vento. Se si vuole l’amore meglio cercarlo altrove. L’amore non è per tutti, ed è una cosa normalissima.*
Enrico Maria Secci
*riproduzione riservata
[*tratto da “Gli uomini amano poco”- amore, coppia, dipendenza”]