
Il phubbing: quando il cellulare mina l’empatia
L’abitudine di controllare lo smartphone nel bel mezzo di una conversazione o di una cena è sempre più diffusa. Per molti è diventato quasi impossibile concentrarsi completamente sull’interlocutore senza sbirciare il telefono al minimo calo di interesse oppure nei momenti di impasse, disaccordo o imbarazzo.
La tendenza a punteggiare le relazioni sociali faccia a faccia con incursioni su WhatsApp, Facebook o altri social può comunicare agli altri disattenzione e superficialità e incidere negativamente sulla qualità delle relazioni interpersonali.
La diffusione del fenomeno a livello planetario è tale che da qualche anno ricercatori australiani hanno coniato il neologismo phubbing, dalle parole inglesi phone (telefono) e subbing (ignorare). Il phubbing definisce quindi l’atteggiamento di trascurare le persone che abbiamo davanti per scrutare lo smartphone.
Non si tratta solo di un comportamento ‘poco educato’, perché il phubbing contamina o interrompe i processi comunicativi responsabili dell’empatia e della connessione interpersonale. In particolare, l’utilizzo del display implica l’interruzione del contatto oculare e disturba la sincronizzazione posturale e prossemica necessarie alla co-costruzione di un rapporto empatico.
Sin dagli albori, le scienze psicologiche e della comunicazione hanno evidenziato il contributo cruciale della reciprocità dello sguardo tra gli interlocutori e del rispecchiamento statico e dinamico del corpo affinché gli essere umani stabiliscano un contatto emotivo profondo e una relazione di autentico ascolto. Perciò la distrazione offerta dagli smartphone può rappresentare un’insidia tanto concreta quanto sottostimata alla qualità delle relazioni non virtuali.
Il phubbing può essere l’indicatore di una dipendenza tecnologica, oppure un segnale di insofferenza, di noia, di dubbio indirizzato a specifici interlocutori, che, più ho meno consciamente, hanno smesso di suscitare l’emozione positiva dell’essere in contatto. In molti casi, soprattutto nelle coppie, il phubbing diventa oggetto di discussione e origine di gelosia e può progressivamente incrinare la fiducia tra i partner con conseguenze disastrose.
Ma le persone più a rischio di phubbing sono i cosiddetti ‘nativi digitali’, ormai giovani adulti e i bambini di oggi, per i quali distogliere l’attenzione da un rapporto faccia a faccia è considerato ‘normale’, anche se può distorcere o compromettere lo sviluppo delle competenze relazionali e, in particolare, la capacità affettiva.
Pediatri, neuropsichiatri, psicologi e psicoterapeuti di ogni parte del mondo stanno evidenziando i rischi dell’abuso di smartphone e tablet nell’età, perché sembra condizionare significativamente le abilità interpersonali, l’attitudine al lavoro di gruppo, la tolleranza alla frustrazione e riducono in ogni campo la soglia dell’attenzione e, quindi, la propensione ad apprendere, a elaborare le informazioni e a farne un utilizzo creativo e focalizzato su obiettivi.
Ogni volta che un fenomeno sociale dà luogo a un neologismo è necessario riflettere, in quanto l’esistenza di una nuova parola designa una realtà e richiama urgentemente al confronto e al dibattito. Così il phubbing necessita, a mio avviso, di maggiore attenzione da tutti a ogni livello del nostro funzionamento interpersonale.
Quando passiamo più tempo a fissare un display che a guardare negli occhi qualcuno c’è un problema. È un problema consentire il phubbing a bambini e ragazzi. Ed è un problema quando in prima persona chattiamo durante un appuntamento, una cena o una festa, mentre siamo in compagnia di colleghi, amici, partner.
Si parla insistentemente di ‘narcisismo tecnologico’, ovvero di una forma di egocentrismo assoluto, privo di empatia rivelato dal ricorso compulsivo a selfie, social network e piattaforme relazionali sempre più estreme, dove sempre più utenti, giovanissimi, costruiscono il proprio personalissimo ‘tempio’ a furia di aforismi copia incolla, inquadrature strategiche e “photoshoppate”, accessi d’ira prossimi allo stalking … in un abisso di solitudine.
Senza facili allarmismi, rifletto sul significato pragmatico del phubbing e lo paragono a una situazione ‘non tecnologica’, ma equivalente: quando parli con qualcuno e poi prendi un libro di carta per leggerne due righe, o interponi di colpo nella conversazione la necessità di sfogliare un pesante album di foto tue … Cosa comunichi all’altro e a te stesso? Perché non stiamo più insieme, gli occhi negli occhi?
Enrico Maria Secci
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