
Quando la mente si arrende: vittimismo, iper-criticismo e amarezza
A tutti capita di incontrare persone cupe, sempre nervose, arrabbiate e addolorate. Quelle che riescono a mortificare ogni situazione, anche la più piacevole, con un commento sferzante o con la riprovazione silenziosa di un’espressione amareggiata.
Le loro lamentele sono continue, la loro sofferenza appare inconsolabile e sembrano vitali solo nella rabbia, quando scatenano tempeste nel bicchier d’acqua della loro esistenza inquinato da pensieri negativi. Quando riportano ossessivamente ogni cosa a un’ingiustizia subita, a qualcuno o a qualcosa che le disgusta e alla riprovevole realtà che le circonda secondo la propria percezione.
All’inizio, i vittimisti possono suscitare istintivamente negli altri consolazione, ascolto, dedizione all’aiuto. Appaiono anime fragili vessate dalla sfortuna, dolci e amorevoli individui perseguitati dal Cosmo, e possono suscitare sentimenti d’amicizia o d’amore profondi. Ma ben presto l’atteggiamento rivendicativo e iper-critico del vittimista, lo smaschera e conduce persino il più paziente degli amici o degli amanti alla confusione, all’angoscia e all’esasperazione.
Che cos’è il vittimismo? Il vittimismo può essere definito come un atteggiamento mentale stabile e pervasivo di negatività, sospettosità e rabbia dovuto ad eventi traumatici, conflitti e nodi psicologici insuperati che, al di là della consapevolezza della persona, si trasformano nel punto focale della sua esistenza.
Il vittimista biasima il benessere, stigmatizza gli altri e la società tutta. Con abilità alchemica riesce a trasformare le migliori intenzioni altrui in manipolazioni occulte e coltiva, suo malgrado, profondi sentimenti di sfiducia e di esclusione.
Il vittimismo è un nemico della mente. Si serve di parole nere, si arrocca nella rigidità del pensiero e lo rende fisso: niente e nessuno può consolare la psiche vittimista; anzi, chi ha l’ardire di confortare il vittimista deve aspettarsi il furore e prepararsi all’esilio.
La psicologia vittimistica rifiuta ogni responsabilità e proietta all’esterno uno o più conflitti interiori, mentre l’autostima vacilla sconfitta dopo sconfitta. La colpa è sempre degli altri, del partner, della famiglia, degli amici, della società, degli altri … L’intero universo è misero, asfittico; è cattivo, è perverso. È fatto di apparenze intessute di superficialità, di egoismi e di ipocrisie.
Iper-criticismo e amarezza. Il vittimista si arma di criticismo e spara a zero, incurante di creare imbarazzo intorno a sé. Alla fine, si sentirà frainteso e troverà la clemenza di alcuni. Otterrà attenzione, sembrerà sollevarsi dal catrame del pessimismo e della misantropia, per poi scagliarsi proprio contro chi lo ha aiutato e sostenuto.
Dietro l’inconsolabile maschera della vittima, ci sono lo sguardo intransigente e la rigidità di un inquisitore ferocissimo.
La lamentela incessante del vittimista contiene una litania da Giudizio Universale: tutto è volgare, stupido, brutto. Quanto più una cosa appare bella, tanto più sarà degradata al rango di illusione, inganno, sabotaggio … inutile cercare significati differenti, evocare ottimismo, dimostrare comprensione. Chi, da vittima, si identifica tragicamente nel “vittimismo”, tenderà a svalutare e a diffidare di chiunque accorra in suo aiuto.
Il vittimismo è un modo ambiguo e sottilmente aggressivo di porsi di fronte all’esistenza, poiché si attribuisce sempre ad altri o al destino quanto ci capita di spiacevole nella vita.
(Gabriele Palombo, Il mal di vivere dell’uomo moderno, 1999)
Accade dunque che il vittimista possa trascinare nelle spirali dell’amarezza partner e familiari, colleghi e gruppi di lavoro, in un contagio psicologico silenzioso. La pestilenziale lamentosità, infatti, si traduce nel dubbio sulla sincerità degli altri e può disseminare il malumore, sino all’estremo: isolamento, distacco, ritorsione, furia.
Il dramma è che la mente vittimista riesce a convalidarsi in moto perpetuo: nel rigettare ogni responsabilità dal disastro che alimenta, è inconsciamente motivata ad ingaggiare nuovi colpevoli con efficienza marziale: l’amico, il compagno, il gruppo di lavoro … la Politica, la Società, la Storia tutta, senza scampo.
Rapportarsi con la visione catastrofista e complottista del vittimista è faticoso. Il rifiuto di inserire la variabile “responsabilità personale” nel nero teorema dei suoi anatemi vanifica gli sforzi di chi crede ingenuamente che tanta amarezza possa trovare sollievo nell’amicizia e nell’amore.
Le conseguenze del vittimismo. Quasi sempre, quindi, intorno al vittimista si addensa il vuoto: gli amici si arrendono, l’isolamento si delinea ogni giorno più nettamente. In famiglia, al lavoro. E, per questo, il vittimista finisce per consolidare la sua credenza di esser vittima, per rifugiarsi nell’amarezza più insana ed irragionevole, per inasprire la sua battaglia matta e disperatissima in un circolo vizioso virtualmente infinito …
A volte, la rigidità diventa tale da produrre sintomi evidenti. Depressione, ansia, panico e fobie riescono a persuadere il pessimista cronico a chiedere un aiuto professionale. È uno dei casi in cui la sintomatologia psichica è tutt’altro che patologica: depressione, ansia, panico e fobie diventano sentinelle “buone”, efficienti anticorpi che vigilano sulla necessità di uscire per sempre dal vittimismo e di cambiare il sistema patologicamente imperniato sull’attribuzione all’esterno dei propri disastri.
Enrico Maria Secci
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