Amori finiti “senza un perché”. Il dramma di chi lascia

Amori finiti “senza un perché”. Il dramma di chi lascia

15 Aprile 2021 3 Di Enrico Maria Secci

Secondo uno stereotipo diffuso sulla coppia chi lascia è il membro forte, quello che, interrotto il legame, proseguirà la sua vita sereno nel sollievo del distacco. Questa credenza errata è mortificante per chi è lasciato perché amplifica la disperazione, alimenta il senso di ingiustizia e rende insostenibile il vissuto di fallimento personale dato dall’essere stato liquidato di colpo e senza spiegazioni.

L’idea che chi abbandoni in modo imponderabile qualcuno che sino al giorno prima mostrava di amare davvero profondamente è un’impressione superficiale che non tiene conto del dramma psicologico di chi fa una scelta così violenta e impetuosa.

È facile giudicare gli uomini e le donne che concludono un amore nel modo drastico e scioccante: sono dei bastardi, dei traditori, degli insulsi, falsi, impostori, si dice. Poiché un’attitudine umana è quella di spiegare con la malvagità ciò che non si comprende, attorno ai soggetti che distruggono una relazione senza saper sapere perché si addensano le ombre della cattiveria, della malignità e del narcisismo perverso.

In realtà, chi lascia nel modo più doloroso, quello dell’amputazione d’impeto, è preda di un raptus emotivo. Non è forte, né è risoluto come potrebbe sembrare. Non è necessariamente un narcisista arido o un calcolatore, non è un algido fedifrago e non è un essere insensibile mosso da istinti rettiliani.

Chi lascia improvvisamente il cosmo ovattato di un amore sicuro, caloroso e felice vive una tragedia psicologica che gli è realmente inspiegabile e che lo sconvolge nella maniera stessa con cui l’altra metà della coppia vive la perdita.

L’impeto con cui la relazione viene troncata è sempre il frutto di una deflagrazione emotiva legata a un forte malessere esistenziale che suscita in chi abbandona sentimenti di stupore, di paura e di sconfitta e procura la lacerazione del lutto. Un lutto sordo, irreversibile e tanto più doloroso quanto più l’individuo si riconosce nel ruolo di artefice del disastro relazionale, ma non è in grado di motivarlo.

Dove la vittima dell’abbandono patisce il dramma della fine unilaterale del rapporto, chi “decide” di annullare il legame è doppiamente gravato dal dolore per la fine dell’amore e dal sentimento straniante di aver assecondato un impulso distruttivo incontenibile senza riuscire a rimediare agli errori e ai non detti, all’insofferenza e all’inquietudine che hanno prodotto l’esplosione.

Comprendere la psicologia di chi lascia mettendo da parte l’elementare conclusione che si tratti semplicemente di un individuo ipocrita e malvagio è importante per chi sopporta suo malgrado il peso del distacco traumatico. La mancanza di un senso nella conclusione di queste relazioni felici è un dato cruciale nell’analisi dei vissuti di chi lascia. Rintracciare questo significato è la chiave per guarire dal trauma e prevenire, o depotenziare, i suoi effetti a medio e lungo termine: il congelamento emotivo, l’incostanza relazionale e la dipendenza affettiva.

Purtroppo, la chiusura repentina del rapporto e lo stato confusionale in cui versa il partner che esplode impediscono un’elaborazione congiunta della separazione, lasciando la coppia spezzata in uno stato di sospensione psicologica data dall’impossibilità di “scoprire” cosa sia realmente avvenuto prima dell’epilogo inatteso e dentro chi lo causato.

La psicoterapia è un osservatorio privilegiato, perché consente di studiare le dinamiche emotive sia di chi lascia che di chi è lasciato. Dopo lo scisma anche i partner che abbandonano spesso si rivolgono a uno psicoterapeuta perché, a dispetto delle credenze ingenue su chi lascia, soffrono quanto o più della loro “vittima”. Come la “vittima” sono increduli, scioccati e sopraffatti e hanno estrema urgenza di superare il dolore che toglie loro il sonno, l’appetito, l’equilibrio, l’autostima e la speranza.

Questi uomini e donne raccontano in terapia l’esperienza rapidissima e straniante di essersi accorti in un giorno qualunque di non provare per il/la partner gli stessi sentimenti d’amore che avevano sostenuto la relazione che descrivono appagante, solida e imprescindibile sino al fatidico momento del ritiro affettivo. Dicono: “È come se qualcosa si fosse spenta all’improvviso dentro di me.”. Dicono: “Forse, siccome non esistono spiegazioni quando due persone si innamorano, allora non esistono spiegazioni quando l’amore finisce”.

Dietro questo sillogismo maldestro le spiegazioni esistono, eccome, e hanno a che vedere non tanto con la/il partner o l’andamento della relazione spezzata avventatamente, ma con nodi, conflitti e sintomi pregressi inerenti al vissuto individuale di chi lascia. Nel lavoro terapeutico con chi ha compiuto un’amputazione emotiva così cruenta e improvvisa “senza un perché” la psicoanalisi e la psicoterapia dinamica sono strumenti imprescindibili per oltrepassare la nebulosa dell’inspiegabilità della decisione auto-distruttiva di rinunciare per sempre a un amore sano, funzionale e soddisfacente.

Nella gran parte dei casi esaminati in questo libro le motivazioni di un gesto così incongruente devono essere ricercate nel passato di chi lascia, un passato altamente traumatico e irrisolto che finisce per soffocare nelle sue spire il cuore vivo e pulsante del/della partner e del rapporto di coppia. La scoperta dei meccanismi psicologici che scatenano il raptus abbandonico e il riconoscimento delle dinamiche individuali che hanno prodotto la “perdita dell’amore” e l’urgenza di spezzare il legame sono indubbiamente processi dolorosi, ma restituiscono una narrazione coerente dove regnano il caos, la disperazione e la frammentazione degli affetti.

Anais Nin, – autrice statunitense diventata psicoanalista per amore di Otto Rank, il celebre allievo di Freud di cui fu prima una paziente e poi l’amante – ha scritto:

“L’amore non muore mai di morte naturale. Muore perché noi non sappiamo come rifornire la sua sorgente. Muore di cecità e di errori e tradimenti. Muore di malattia e di ferite, muore di stanchezza, per logorio o per opacità.”

Con questa consapevolezza dobbiamo esplorare il nostro animo, scavare nel profondo e continuare a cercare le ragioni della fine del rapporto senza rassegnarci al suo apparente mistero, perché ciò che traumatizza e ammala non è la perdita dell’altro né la sua decisione di lasciarci, ma il modo insensato, privo di qualsiasi coerenza narrativa, con cui siamo stati abbandonati.

Non ci sono amori “giusti” o “sbagliati”. Nessuno ha il diritto di stabilire regole, di speculare sulle nostre storie o di giudicare le scelte di relazione che facciamo. Abbiamo, ciascuno per sé, il compito di stabilire cosa chiamare amore e cosa no e di condurre la nostra esistenza con consapevolezza e responsabilità nell’ambito delle scelte di relazione che facciamo.

Nessuno vada alla ricerca di situazioni ideali, preconfezionate, e nessuno si doti di un “prontuario” universale dell’amore, pena la rabbia, l’amarezza e la solitudine.

Non dobbiamo temere né rifuggire dall’infelicità in amore, ma utilizzarla per discernere, secondo la nostra soggettività e i nostri valori, tra ciò che dobbiamo superare e ciò che vogliamo vivere.

Enrico Maria Secci
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