
Suicidi e Covid-19
Nel 2020 il tasso dei suicidi potrebbe aumentare del 50% a causa del dissesto finanziario e della crisi psicologica collettiva dovuta al Covid-19. A lanciare l’allarme il Centro per la Salute Mentale dell’Università di Sidney, secondo cui, in Australia, entro cinque anni i decessi per suicidio supereranno le morti da coronavirus.
Purtroppo, le stime impietose dell’autorità sanitaria australiana sembrano confermare i segnali provenienti da tutti gli Stati infetti e amplificano l’SOS planetario degli esperti, psichiatri, psicologi e psicoterapeuti. L’emergenza pandemica è solo l’incubatore di una tragedia di proporzioni potenzialmente apocalittiche e di durata impoderabile per via delle troppe variabili coinvolte, e perché la comunità scientifica non ha mai combattuto un trauma collettivo così immane.
Sulla base delle evidenze statistiche e psicopatologiche riguardanti i fattori che motivano condotte suicidarie, l’allerta del Centro studi australiano deve mobilitare al più presto tutti i Governi affinché prevengano la strage annunciata con ogni mezzo possibile.
Infatti, tra i fattori maggiormente correlati alla decisione di togliersi la vita le preoccupazioni finanziale rivestono un ruolo preponderante assieme ai disagi di natura relazionale e/o all’isolamento sociale. Chi ha contratto debiti diventati insolvibili a causa della crisi dovuta al lockdown prolungato e/o la perdita del lavoro vive un trauma economico inaudito e, allo stesso tempo, subisce una ferita potenzialmente letale a livello psicologico ed emotivo. In base all’entità della ferita, i soggetti più vulnerabili e/o già marginalizzati prima del Covid-19 saranno investiti in misura maggiore da sentimenti intollerabili: mancanza di senso, pessimismo, senso di sconfitta, di fallimento e d’inutilità.
Un’altra fascia a rischio comprende i giovani, soprattutto tra i 18 e i 30 anni. La paralisi prolungata del sistema formativo e produttivo e la detenzione forzata in mondi telematici possono esporre i ragazzi e le ragazze più sensibili a vissuti profondamente negativi e contribuire all’ideazione suicidaria. Purtroppo l’irruzione del contagio, l’isolamento e l’evidente confusione istituzionale scatenate dall’emergenza hanno distrutto le già labili certezze su cui i giovani e i giovani adulti basavano il proprio progetto di studio e il futuro lavorativo.
In una Società giusta, sana e funzionale garantire l’assistenza psicologica a questi giovani dovrebbe essere una priorità, perché la loro crisi è aggravata dalla crisi dei loro adulti di riferimento e perché la patologia. Assistere alla disfatta dei propri modelli, alla paura, all’angoscia, al tracollo di un genitore può costituire un fattore precipitante per lo sviluppo di disturbi di matrice depressiva potenzialmente letali, soprattutto se non saranno prevenuti, diagnosticati e trattati in modo tempestivo.
Il tabù del suicidio. Nel Belpaese parlare di suicidio è un tabù, anche per via della secolare e venefica ingerenza del Vaticano sull’etica e sulla politica dello Stato italiano. La dottrina vigente stigmatizza il suicidio come “peccato mortale”, e anche solo meditare di togliersi la vita è considerato immorale e disumano.
Invece, dal laico punto di vista della psicologia l’ideazione suicidaria è comune e ricorrente negli essere umani durante le crisi del ciclo di vita, e può aumentare in corrispondenza di perdite, lutti o tragedie collettive, come incidenti ferroviari o aerei, alluvioni o terremoti.
Persino in ambito scientifico il suicidio è un argomento scomodo e temuto, un tema su cui predomina la soluzione del medicalizzare, senza prestare reale attenzione alle dinamiche complesse che trasformano la sofferenza mentale in un’esecuzione auto-inflitta.
E, tra queste dinamiche, la stigmatizzazione, la patologizzazione, la colpevolizzazione e la censura sono probabilmente gli inneschi che trasformano la disperazione del pensiero suicidario nell’azione disperata ed estrema dell’uccidersi.
In questi giorni in Italia ha creato scalpore, più di altri, il recente suicidio di un imprenditore napoletano schiacciato dal senso di responsabilità verso i propri dipendenti e dalla vergogna del fallimento. A parte azzimate condoglianze di rito, la reazione politica è consistita nel dibattere sulle misure economiche da approntare affinché simili disgrazie non si ripetano.
Ma nemmeno una parola sulle misure psicologiche contro l’ecatombe suicidaria che potrebbe lacerare in profondità il nostro tessuto sociale. Quale parte politica si assumerà finalmente la responsabilità di promuovere programmi organizzati e massivi per la prevenzione (a mio avviso già tardiva) delle malattie mentali collegate al Covid-19 e alla crisi finanziaria e psicosociale in atto?
In attesa che la collaborazione tra istituzioni sanitarie, ordini professionali e dispositivi assistenziali risponda al sicuro e drammatico incremento dei suicidi anche Italia, penso che parlare esplicitamente di suicidio evitando di censurare una tematica così importante, possa aiutare molte persone.
Infatti, da un punto di vista clinico proprio lo stigma e la vergogna accompagnano i primi pensieri di morte e aggravano quei sentimenti depressivi di fallimento, di colpa e di inadeguatezza che, insieme ad altri fattori, potrebbero condurre all’inappellabile sentenza di uccidersi.
Il Governo Australiano sta delineando piani di prevenzione e di assistenza psicologica, psicoterapeutica e psichiatrica su larga scala per contrastare o contenere almeno l’onda d’urto di lutti, di traumi e di tragedie collettive dovute non al Covid-19.
E l’Italia? Come faremo in un Paese in cui si disquisisce di messe, di ombrelloni e di mercatini, mentre la gente arranca da sessanta giorni in un disagio palpabile senza poter accedere, tra l’altro, a un aiuto psicologico e psicoterapeutico qualificato a condizioni economiche sostenibili?
Non è un mistero che il sistema sanitario italiano difficilmente potrà gestire lo tsunami suicidario e l’onda lunga ansioso-depressiva che seguirà. D’altra parte, i professionisti privati sono percepiti come inaccessibili, perché costosi. Ma pochi sanno che il carico fiscale soffocante e ingiustificabile sulle prestazioni psicologiche (oltre il 60%, escluse le spese di gestione dello studio) obbligano i professionisti a onorari oggettivamente inaccessibili per la gran parte della popolazione.
Una soluzione potrebbe essere incentivare l’accesso alla psicoterapia attraverso detrazioni fiscali massicce, né più né meno di quanto il nostro Governo riesce a fare per l’acquisto di infissi, mattoni, auto e condizionatori. Non lo trovo difficile, e soprattutto facilitare l’accesso ai servizi per la salute mentale potrebbe salvare molte più vite che l’installazione di pannelli solari o l’acquisto di una macchina elettrica. Dico forse.
Enrico Maria Secci
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