L’amore tossico: quando l’autostima non basta

Sempre più spesso si parla di “relazioni tossiche”, di manipolazione psicopatica e di narcisismo perverso. La consapevolezza di questi temi è come esplosa nell’ultimo decennio, anche perché la sensibilità collettiva è continuamente sollecitata dalle cronache su fatti gravissimi in ambito relazionale come stalking e femminicidi.
Fatti contrassegnati da denominatori comuni e ricorrenti, la dipendenza affettiva e il narcisismo patologico cronicizzati a causa della superficialità con cui, troppo spesso, la società affronta la sofferenza psicologica e relazionale.
Segnali dell’accresciuta attenzione per queste problematiche sono l’aumento della letteratura specialistica e divulgativa sulle love addictions e sui narcisismi, i programmi televisivi d’inchiesta sui delitti di matrice relazionale e la nascita di siti, blog e pagine Facebook dedicate.
Un altro indicatore dell’urgenza della questione della sofferenza nell’ambito della coppia disfunzionale consiste nell’incremento della richiesta d’aiuto a psicologi e psicoterapeuti per superare specificamente una condizione di dipendenza affettiva e i suoi sintomi più tipici.
Perché le vittime non chiedono l’aiuto della psicoterapia. Tuttavia il numero di persone che intraprendono una psicoterapia perché invischiate in un “amore tossico” è ancora esiguo in rapporto alla diffusione di questa problematica. Uno dei motivi per cui le “vittime” della relazione dipendente evitano l’intervento psicologico è il timore di doversi sottoporre a un processo, di sentirsi indagati nella personalità, nella propria biografia e nelle proprie manifestazioni per poi sentirsi dire quello che il partner, i parenti e gli amici hanno loro ripetuto inutilmente: sei malata, la tua autostima è bassa, stai buttando la tua vita, datti una mossa, se non ce la fai mollalo … e altre cose di questo tipo.
La doppia colpevolizzazione. In effetti, alcuni approcci terapeutici si focalizzano sugli aspetti personali e intra-psichici più che su un’analisi inter-personale e sistemica col risultato che improntano la relazione d’aiuto sulla responsabilizzazione del paziente circa la situazione sentimentale in cui è impantanato, individuano le sue modalità “sbagliate”, lo invitano a prendere consapevolezza delle cause “remote” (l’infanzia, la famiglia d’origine, ecc.) e lo incoraggiano a modificarle con le “magiche” chiavi dell’autostima e della “crescita personale”.
Purtroppo, la persona che già si sente vittima di un partner e/o di una relazione sentimentale di rado trae qualche vantaggio in una psicoterapia che, seppur con le migliori intenzioni, la conduce a scoprire di essere innanzitutto vittima di se stessa.
Il rischio è dunque quello che al senso di colpa distruttivo sollecitato dal partner nella relazione “tossica” (sei malata, sei inadeguata e pazza) si aggiunga il senso di colpa innescato dall’approccio intra-psichico di alcune psicoterapie che suggeriscono insistentemente di “guardare dentro di sé” e di ritrovare la propria autostima originariamente ferita da vissuti infantili.
Il risultato è una sorta di “doppia colpevolizzazione” del paziente che, soprattutto all’inizio della psicoterapia è troppo fragile e soverchiato dal dolore provocato dalle dinamiche del “qui ed ora” della relazione malata per occuparsi anche del passato, del rapporto con il padre o con la madre e del lontano “lì e allora” dove si sarebbero formate le matrici della dipendenza attuale.
Oltre il senso di colpa: l’approccio multi-dimensionale alla dipendenza affettiva. La visione individuale del paziente come intrinsecamente propenso a relazioni disturbate, della persona come vittima di se stessa è un retaggio psicolanalitico che porta a una visione monoculare del problema e lo semplifica terribilmente sul piano teorico (rafforzare la consapevolezza di sé e l’autostima) mentre lo complica sul piano operativo, perché se anche la persona riuscisse a recuperare la sua integrità avrà fatto pochi passi avanti, o nessun progresso nella comprensione delle dinamiche inter-personali che lo hanno fagocitato nella dipendenza affettiva e nel riconoscimento delle trappole tese dal partner, soprattutto se narcisista patologico.
Insomma, si potrebbe dire, che è vano sanare l’incendio in un bosco se si lascia il piromane a piede libero.
Smascherare il narcisista perverso. Negli ultimi anni dunque l’attenzione dei clinici si è sposta dall’analisi intra-psichica del paziente a quella del funzionamento della relazione “tossica” e, soprattutto, all’individuazione delle strategie manipolatorie e delle modalità inerenti la soggettività del narcisista perverso.
La psicoterapia evoluta della dipendenza affettiva è sempre più multi-dimensionale e basata sull’integrazione di tre piani di lavoro: il Sé della “vittima”, il Sé del “persecutore” e la relazione circolare viziosa in cui interagiscono.
Un aspetto innovativo e strategico della psicoterapia delle love addiction consiste nell’accogliere il vissuto della persona per come lo presenta nel qui ed ora e sostenerla innanzitutto nel riconoscimento delle criticità del funzionamento della relazione attuale e presente e, allo stesso tempo, accompagnarla alla scoperta dell’altro, al di là della cortina di idealizzazioni e di colpevolizzazioni attraverso cui il narcisista soggioga la sua preda.
Non si tratta evidentemente di incoraggiare la persona a cercare all’esterno da sé la responsabilità, ma di costruire una cornice sostenibile e realistica entro cui la “vittima” potrà individuare con più precisione la sua parte di responsabilità, conseguire un grado di consapevolezza che tenga conto di sé, dell’altro e di sé con l’altro sufficiente a recuperare un equilibrio e, finalmente, prendere decisioni anziché subirle, agire anziché reagire e, dove non ci siano alternative, rescindere il legame intossicante, con buona pace delle inevitabili manovre di “ricattura” del partner e dei suoi puntuali “ritorni”.
Rischio di “vittimizzazione?”. Ora, c’è chi pensa che metter in luce gli schemi del narcisista perverso comporti il rischio per il paziente di de-responsabilizzarsi dal cambiamento personale e di non guardare dentro di sé, ma di ricercare le cause della propria sofferenza all’esterno e negli altri. Questa critica non tiene conto del fatto che parliamo della necessità di una psicoterapia multi-dimensionale e integrata, dove di certo non si trascurano gli aspetti psicodinamici e intra-psichici e si lavora con precisione strategica per evitare che il paziente si arrocchi nella “vittimizzazione” e si trinceri nella rabbia e nell’odio per il narcisista visto come la causa di tutti i suoi mali.
Allo stesso modo, non si tratta di “demonizzare” nessuno, meno che mai il narcisismo, non meno di quanto si potrebbe sostenere che un approccio psicoanalitico incoraggi i pazienti a “demonizzare” i propri genitori e parenti e a bloccarsi nel ruolo di vittima impotente del passato remoto.
Enrico Maria Secci, Blog Therapy
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