Il bisturi e l’autostima. La dipendenza da chirurgia estetica (la sindrome di Grimilde)
Si parla da anni della rincorsa collettiva verso la bellezza e la giovinezza a furia di ritocchi facciali, liposuzioni, rino e blefaroplastica, lifting chirurgici e non, e via dicendo.
Un seno o un viso rifatti fanno ormai più invidia che notizia, e l’addominale scolpito, o il gluteo antigravitazionale, si impongono alla massa come uno standard da raggiungere con ogni mezzo.
Verso una psicopatologia dell’estetica. Meno note e meno discusse sono, invece, le implicazioni psicologiche e psicopatologiche della medicina estetica, anche se si presentano con evidenza crescente nelle forme più diverse. Per esempio,aumenta il numero di pazienti “abbelliti” che si dichiarano insoddisfatti del risultato e richiedono una ulteriore operazione; cresce proporzionalmente, la quantità di persone che dopo un primo intervento innescano una vera e propria escalation accanita di ritocchi, aggiunte o riduzioni plastiche. Infine, altri si votano giocoforza al bisturi a vita, costretti all’imprevedibile o mal calcolata evenienza di adattare o rinnovare le proprie protesi obsolescenti.Vedere, a proposito, il palinsesto televisivo.
Il ricorso al chirurgo estetico, dopo il boom degli anni ’80, quando era appannaggio esclusivo delle star e dell’ormai anacronistico jet-set, negli anni ’90 é diventato una moda e oggi é mutato in una consuetudine senza distinzione di età e di sesso. Uomini e donne, ragazzi e ragazze consegnano al medico le richieste più varie, tutte rivolte a correggere un “difetto” che avvertono come un ostacolo alla propria autostima, all’autorealizzazione e all’accettazione sociale.
Una frazione di questa esponenziale domanda ricade nell’esigenza terapeutica: effettivamente, un naso percepito come deturpante, labbra troppo sottili, seno o pene troppo piccoli possono minacciare, in alcuni soggetti, uno sviluppo sereno dell’identità e perturbare la capacità relazionale. Ma un’altra enorme fetta della clientela, si presenta con una richiesta di miglioramento del tutto soggettiva, talvolta voluttuaria e utilitaristica, talvolta come sintomo incompreso di un disordine dell’umore, dell’immagine corporea o della personalità.
La sindrome di Grimilde. Maschere (s)tirate a lucido, sopracciglia congelate in quell’inconfondibile piglio marziale, pance trapiantate nel didietro, ghigni di plastica e formaldeide sono stati il nostro pane televisivo di ogni giorno, ma ora la compassata e austera immagine della tragica Grimilde, la regina di Biancaneve, sfila con supposta sovranità alle casse del supermarket, per strada, nelle palestre, nei locali e nei pubblici uffici col suo carico nascosto di angoscia d’amore.
Sono le donne “comuni”, oggi, le vestali di una inconsapevole e agguerrita mortificazione del proprio corpo, le vittime consenzienti della dilagante diseducazione emotiva. Donne ossessionate dal chilo di troppo, dalla piega delle palpebre, dalla ruga nasolabiale, dalla taglia 42 che si autosomministrano ogni tortura cosmetica possibile e, quando possono, si abbandonano al bisturi, alla delizia della trasformazione chirurgica… che, molto probabilmente, diventerà croce.
I “Grimildi”. E poi, in un par condicio deteriore e stucchevole, ecco i Grimildi, questi uomini sempre più simili ad amazzoni, schivi e aggressivi, dai muscoli inutilmente tronfi, persone costrette nelle più estenuanti forme olimpiche, tra diete, corse, pesi, integratori e punture: Tutti presi – e ripresi da se stessi, principalmente via smartphone- nella ossessiva ostentazione di una forma fisica cinematografica, che spesso e volentieri dipenderà da un’esistenza ascetica e ossessivamente narcistisica e opportunamente sterilizzata da emozioni, quando non direttamente dal medico estetico di turno.
Grimilde e il bisturi. Questa bellezza ostentata e scintillante, è in molti casi il gelido riflesso di un disturbo psicologico, non meno dell’anoressia e della bulimia, o della depressione: il dismorfismo corporeo o dismorfofobia. Consiste nell’ossessione per un difetto nell’aspetto fisico che genera un’intensa sofferenza psichica.
Il “difetto” è generalmente lieve e, generalmente, immaginario e può riguardare il corpo nella sua totalità o parti specifiche, come, per esempio, la forma del viso, del naso o delle labbra.
La persona dismorfica trascorre gran parte del proprio tempo a rimuginare sulla sua “deformità” percepita, a valutarne lo stato, a lamentarsene con gli altri e a ipotizzare soluzioni mediche o chirurgiche su come correggersi.
Al dimorfismo sono spesso associate condotte di ritiro o di rifiuto sociale, episodi depressivi alternati a momenti di aggressività, marcate difficoltà nella sfera affettiva e sessuale. Spesso, gli interventi chirurgici che dovrebbero rimuovere il “difetto” lasciano il paziente insoddisfatto e ancora più angosciato. Plastiche nasali, seni ridotti o aumentati, liposuzioni, inturgidimento delle labbra per i soggetti dismorfici costituiscono tentativi di soluzione destinati a alimentare il problema di fondo, relativo al rifiuto di sé.
In fondo, Grimilde, maschio o femmina che sia, si muove inconsapevolmente verso la negazione di sé, la distruzione di sé, l’automutilazione dove sembra affermare il contrario, e pagare un severissimo e costosissimo pegno chirurgico e, ancor più, esistenziale.
Enrico Maria Secci, Blog Therapy